Caro Direttore, è in approvazione in questi giorni il Programma regionale delle Attività produttive 2012-2015 che mette a disposizione 180 milioni di euro per la realizzazione di un nuovo percorso di sviluppo economico e territoriale.
L’obiettivo è collocare la nostra Regione all’interno della strategia di Europa 2020 dando piena attuazione al “Patto per la crescita intelligente, sostenibile e inclusiva” sottoscritto, dall’intera società regionale, promuovendo un sistema dinamico, aperto e competitivo fondato sull’uso più efficiente delle risorse, sulla circolazione di conoscenza, creatività e innovazione, per assicurare nuova occupazione e qualità del lavoro.
Durante la discussione in Commissione assembleare, assieme ad altri colleghi, ho insistito sulla necessità di valorizzare maggiormente, all’interno del Programma, il tema della responsabilità sociale d’impresa (RSI), come cardine del nuovo modello di sviluppo. Valutazioni accolte da un emendamento dell’Assessore Muzzarelli che afferma testualmente la necessità di sostenere “il principio e la prassi della responsabilità sociale d’impresa, la quale non è da considerare solo come un obiettivo specifico di un pur importante programma operativo, ma è una condizione essenziale per lo sviluppo di un’economia sana e innovativa”.
Responsabilità sociale d’impresa, quindi, come paradigma socio-economico, ossia un nuovo modello di relazioni nel mercato tra le diverse forze presenti e un nuovo sistema di valutazione delle stesse. Un concetto molto più ampio rispetto a quello di etica dell’impresa, con il quale si intendono quelle regole di comportamento che l’azienda adotta per garantire il rispetto delle leggi, e quei valori che l’azienda stessa definisce come requisiti comportamentali e decisionali rispetto alla propria identità e cultura. Un approccio prettamente normativo, che si basa sull’esplicitazione di un codice etico e delle procedure di controllo ad esso collegate, quali, ad esempio, il bilancio sociale o le varie certificazioni.
Il concetto di responsabilità sociale va, invece, oltre il problema di un’equa redistribuzione del valore aggiunto fra gli stakeholder dell’impresa e affronta il cuore del problema, che è come viene prodotto il valore e come vengono impiegate le risorse collettive (lavoratori, capitali, materie prime, ...), in modo tale da ridistribuire equamente costi e benefici.
Del resto, anche al cittadino consumatore non basta più il solo rapporto qualità-prezzo; vuole sì consumare, ma farlo in modo critico; vuole sapere come quel certo bene è stato prodotto e se nel corso della sua produzione l’impresa ha, ad esempio, violato i diritti fondamentali della persona che lavora, oppure ha inquinato l’ambiente.
Un’impresa può dunque impegnarsi in attività di sponsorizzazione o addirittura di filantropia e, ciononostante, non essere socialmente responsabile. Il fatto è che, mentre la logica della filantropia d’impresa è quella della concessione oppure della compassione, la RSI poggia sul principio della pari dignità di tutti i soggetti coinvolti nell’attività aziendale ai fini della costruzione e realizzazione del progetto imprenditoriale. Richiede, pertanto, un cambiamento di atteggiamento e un nuovo modo di concepire la produzione, che lascia ampio spazio alla creatività di ciascuno, piuttosto che una rigida formalizzazione.
All’impresa è richiesto di diventare “sociale” nella normalità della sua attività economica, dimostrando che efficienza ed efficacia possono procedere di pari passo; anzi che l’impresa riesce tanto più agevolmente a restare a lungo sul mercato, quanto più riesce ad assecondare obiettivi plurimi, non limitati al solo profitto. Del resto già lo stesso Henry Ford, in un’intervista del 1919, dichiarava: “Un’impresa che fa null’altro che soldi è un’impresa veramente modesta”.
È la visione del rapporto mercato-società tipica dell’economia civile, che ci aiuta a superare la vecchia concezione secondo cui al mercato è richiesta la creazione di ricchezza; la solidarietà e la reciprocità, invece, operano solo successivamente per la suddivisione della “torta” e l’assegnazione delle “fette” agli individui.
Nella stagione della globalizzazione questa logica dei “due tempi” (prima le imprese producono, e poi lo Stato si occupa del sociale) non funziona più, perché è venuto meno il nesso stretto tra ricchezza e territorio, su cui è stato costruito il nostro sistema di welfare occidentale. I principi “altri” dal profitto e dallo scambio strumentale possono e devono, invece, trovare posto dentro (né a lato, né prima, né dopo) l’attività economica, per un nuovo sviluppo del nostro capitale territoriale.
Damiano Zoffoli Consigliere regionale dell’Emilia-Romagna
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